Il testimone


Quando riprese i sensi in quella stanza, era come se tutto ciò che lo circondava fosse diverso, svuotato del suo originale valore: perfino un atto istintivo come il respirare sembrava affaticarlo. Il nome Bob non lo sentiva più suo, esattamente come l’amicizia che ci legava da sempre. Lo trovò la moglie Laura nella pensione che occupava ormai da due giorni, io ero lì con loro. Erano rimasti d’accordo che per non disturbare lui l’avrebbe chiamata l’indomani, dopo essersi riposato dal lungo tragitto in autostrada. Ma così non accadde e la moglie preoccupata iniziò a cercarlo: quando finalmente capì dove si trovava, lo raggiunse. Io ero sempre lì e lui era come assente. Raccontò quello che aveva visto solo dopo molte ore dal ritrovamento, anche se nonostante fossi il solo, lì al suo fianco, non sembrava parlare con me. Con gli occhi pieni di lacrime disse: «Ero alla guida, in un largo rettilineo in discesa, ad un certo punto ho perso il controllo dell’auto che si è rigirata più volte su se stessa, quando si è fermata mi sono controllato per vedere se ero ferito. Lì ho notato il sangue ma non era mio: era di Laura e di Shelley, che stavano con me in macchina. Loro sono morte.» Da lì in poi non parlò più, anzi non fece altro. A nulla servì il mio tentativo di confortarlo mostrandogli i suoi affetti sani e salvi o l’automobile intonsa parcheggiata fuori casa: vedere lo lasciava indifferente. Restò muto, immobile e digiuno finché gli stenti lo finirono. A nulla servì la costante presenza dei familiari, l’assistenza degli specialisti. Nessuno riuscì a spiegare. Io che lo conoscevo bene posso solo azzardare una teoria: amò alla follia, la follia lo inghiottì.